Era una mattina lenta. Di quelle che non si accendono subito, ma si allungano piano sopra le cose. Anche il cane sembrava averlo capito: niente corse, niente guaiti. Solo lui, seduto davanti alla porta, la coda ferma come un segnalibro, lo sguardo da esperto del “tanto lo so che oggi si va”.
Lo zaino era pronto dalla sera prima. Acqua, biscotti, due panini avvolti in una carta che già profumava di formaggio stagionato e buoni propositi. Una mappa anche, ma tanto lo sapevo: non l’avrei aperta. Quando si va con lui, il percorso lo decide il naso. E il naso, si sa, non sbaglia quasi mai.
La funivia da Siusi ci portò su in silenzio, con quelle cabine che sembrano pensate per parlare sottovoce. Il cane, seduto vicino, appoggiò il muso sulla mia gamba e guardò fuori. Non sembrava curioso. Né spaventato. Piuttosto assorto, come uno che si sta lasciando cullare da un pensiero.
L’Alpe di Siusi ci venne incontro senza fare scena. I prati larghi, le cime lontane, l’aria pulita da sembrare nuova. C’era un silenzio che non era vuoto, ma pieno di cose gentili. Iniziammo a camminare quasi senza accorgercene. Il sentiero partiva morbido, una linea tra il verde e le baite. Lui apriva la strada, con le orecchie che seguivano il ritmo e il passo allegro dei giorni buoni.
A ogni svolta, un annuso. A ogni sasso, una pausa strategica. A ogni incrocio, una mezza occhiata come per dire: “Guarda che so dove andiamo.” Passammo accanto a una malga da cui usciva un odore inconfondibile di burro fuso e polenta seria. Io feci finta di niente. Lui no. Si fermò, puntò il naso, fece quel mezzo passo di chi spera. Una signora spuntò con uno straccio e un sorriso. Gli porse un pezzetto di pane e formaggio senza nemmeno chiedere. Lui lo prese con quel rispetto che solo i cani hanno per le cose buone.
Ci fermammo su una panchina sbiancata dal sole. Da lì si vedeva tutto: prati, mucche in fila, tetti appuntiti e il cielo che non aveva fretta. Lui si sdraiò vicino, con quel sospiro lungo che è già metà sogno. Io scartai un panino, ma senza fretta. Non si aveva fretta, quel giorno.
Ripartimmo quando il sole si era già spostato di un bel pezzo. L’aria era più viva, i colori più caldi. Le ombre correvano tra i larici come bambini in ritardo. Lui camminava di nuovo davanti, tranquillo, ogni tanto si fermava a guardare un punto nel nulla. Forse stava ripensando a quel pezzo di formaggio. O forse no.
Al bivio per Saltria non servì decidere. Proseguimmo. Il sentiero si strinse, l’erba si fece alta. Un ruscello tagliava la strada. Lui ci entrò senza pensarci, l’acqua fino alle ginocchia. Poi si scrollò con precisione chirurgica. Io risi. Lui no. Ma gli brillavano gli occhi.
Trovammo un vecchio abbeveratoio. Lui bevve come se fosse arrivato a un traguardo, poi si sdraiò sotto la vasca. Le zampe distese, il muso sulla ghiaia. Guardava le nuvole spostarsi, lente e leggere. Chissà se anche lui, in quel momento, stava pensando: “Che bellezza.”
Camminammo ancora, ma più lenti. Non per stanchezza. Perché certe giornate vanno rallentate, come i film belli. Passammo davanti alla chiesetta di San Francesco, tutta in legno chiaro, semplice e seria. Ci fermammo. Non per pregare. Solo per restare.
Alla fine ci sedemmo sull’erba, senza direzione. Il cane si acciambellò, la testa su una radice, la pancia al cielo. Stanco il giusto. Io tirai fuori un caffè dal termos. Era tiepido, ma buonissimo. Nessuna parola. Solo silenzio e cielo e zampe vicine.
Quando le prime nuvole si gonfiarono sopra le Odle, pensai che forse il senso di camminare è tutto lì: andare senza fretta con qualcuno che non ti chiede dove stai andando. Ma ti segue. E basta.