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ra le rovine di Pompei, dove ogni pietra racconta la vita interrotta di un giorno qualunque del 79 d.C., ci sono tracce che non appartengono a imperatori, né a schiavi, né a mercanti. Sono impronte più piccole, leggere, ma cariche di significato: le zampe dei cani che vivevano accanto agli uomini, testimoni silenziosi di una civiltà che amava e temeva la natura con la stessa intensità.

Nelle case romane, i cani non erano solo guardiani o cacciatori. Erano compagni, simboli di protezione domestica, e spesso oggetti di affetto sincero. A Pompei, più che in qualsiasi altro luogo, la loro presenza è rimasta sospesa nel tempo. Gli archeologi hanno ritrovato resti e calchi di diversi cani, pietrificati nell’ultima corsa verso la salvezza o addormentati nel loro posto di sempre, ignari di ciò che stava accadendo.

Il più celebre è forse il cane incatenato, ritrovato nella Casa di Vesonio Primo. Il suo corpo, reso immortale dal gesso colato nei vuoti lasciati dalla cenere, mostra la torsione disperata di chi tenta di fuggire, trattenuto da una catena troppo corta. Un’immagine potente, ma anche simbolica: l’animale legato alla casa fino all’ultimo respiro, fedele al suo compito di guardiano. Non c’è pietà imposta in quella figura, ma un profondo rispetto. È la testimonianza di un rapporto antico e reale, fatto di convivenza e destino condiviso.

Ma non c’è solo tragedia. Passeggiando tra i mosaici e gli affreschi, i cani di Pompei tornano a vivere in forme più quotidiane, più leggere. Il celebre mosaico “Cave Canem”, che accoglieva i visitatori all’ingresso di molte domus, è diventato un’icona del mondo romano. Quelle parole — “attenti al cane” — non erano solo un avviso di sicurezza, ma un segno d’identità. Ogni casa aveva il suo custode, e avvertire della sua presenza era un modo per dire: “Qui c’è vita, qui c’è qualcuno che veglia”.

Le raffigurazioni cambiano da casa a casa. Alcuni cani appaiono fermi e fieri, con le orecchie dritte e la coda tesa; altri sembrano giocare o correre, con un dinamismo sorprendente per l’epoca. In certe dimore patrizie si vedono persino piccoli cani da compagnia, simili ai moderni volpini, dipinti accanto alle padrone. In altre, cani più grandi e robusti, simili ai molossi, raffigurati mentre accompagnano il padrone a caccia.

A Pompei i cani avevano quindi molte vite: quella domestica, quella utile e quella simbolica. Alcuni erano veri e propri status symbol; altri, come i randagi che vagavano per le strade e i fori, facevano parte del paesaggio urbano. Gli antichi li consideravano animali sacri a Diana, dea della caccia, ma anche protettori della soglia, intermediari tra la casa e il mondo esterno.

Nelle iscrizioni pompeiane, si trovano perfino riferimenti affettuosi. Nomi come “Fidus” (fedele), “Lupa”, “Celer” o “Fortis” compaiono graffiati sui muri o citati in epigrafi funerarie. Segni di un legame autentico, non distante da quello che unisce noi ai nostri cani oggi.

Le impronte conservate nella cenere raccontano il resto: zampette impresse nei cortili, accanto a quelle dei bambini o alle suole dei sandali. Scene di una quotidianità interrotta, ma ancora palpabile. Guardarle oggi significa entrare in un frammento di tempo che non si è mai davvero fermato.

Pompei ci restituisce così un ritratto sorprendentemente moderno del rapporto uomo-cane. Non c’è idealizzazione, ma realtà. I cani lavoravano, proteggevano, vivevano liberi o legati, mangiavano gli avanzi delle cucine, dormivano all’ombra dei colonnati. Condividevano la sorte dei loro padroni, nel bene e nel male.

Oggi, tra le rovine, capita di incontrare cani veri. Sono discendenti lontani di quelli antichi, adottati dai custodi o dai visitatori, liberi di aggirarsi tra le pietre come se vegliassero sulla memoria dei loro simili. È difficile non vederci una continuità poetica: secoli di storia e di silenzio, ma lo stesso sguardo vigile, la stessa calma presenza che accompagna l’uomo fin dalle sue origini.

Forse per questo i cani di Pompei colpiscono ancora tanto. Non per la tragedia, ma per la naturalezza con cui ci parlano del legame più antico del mondo. Un legame che resiste a tutto, anche alla cenere del tempo.