Quando si sceglie il nome di un cane, si pensa di dare un’identità. Un suono che lo rappresenti, che lo distingua, che lo chiami. Si passa in rassegna una lista infinita, si cercano nomi corti, facili da ricordare, con una buona sonorità. C’è chi si ispira ai cartoni animati, chi alle costellazioni, chi a una vecchia zia che si chiamava come nessun altro. E poi, dopo averlo pronunciato per qualche giorno con orgoglio e convinzione, quel nome inizia a cambiare. A deformarsi. A prendere altre strade, come l’acqua che scorre e trova nuove forme. Perché l’amore, quando cresce, si moltiplica anche nelle parole.
Nel giro di poche settimane, “Luna” diventa “Lulù”, “Lulina”, “Signorina della cuccia”, “Stellina mia”. “Otto” diventa “Ottino”, “Ottaccio”, “Zampalunga”, “Cartellino rosso”. “Nerone” diventa “Neruccio”, “Nerix”, “Nero di Whatsapp”, “Re della casa”. E ogni nuovo nome non cancella quello originario, lo arricchisce, lo sfuma, lo racconta meglio.
Non si tratta solo di vezzeggiativi. È qualcosa di più profondo. I soprannomi che inventiamo per i nostri cani sono tracce linguistiche dell’intimità. Sono carezze che si fanno suono. È come se ogni momento condiviso avesse bisogno del suo piccolo codice, di una parola unica per dire “tu, proprio tu, in questo preciso istante”.
Il linguaggio tra cane e umano è fatto più di tono che di significato. Non è tanto cosa diciamo, ma come. Il cane riconosce l’intenzione nella voce, il suono nella sua musica emotiva. Una parola detta con amore è comprensibile anche se inventata. E così, il nostro amico a quattro zampe impara che quando lo chiamiamo “peluche con la coda” o “bambino col pelo” non è confusione, ma dedizione.
Ci sono nomi della quotidianità – quelli usati al mattino, mentre si prepara la colazione, o durante le passeggiate. E poi ci sono quelli della sera, più morbidi, più dolci, più lenti. Quelli che si sussurrano mentre ci si accoccola sul divano. Alcuni nomi spuntano solo in certi momenti: quando il cane fa una marachella, quando fa una cosa buffa, quando si infila nel letto come se fosse il suo. E ognuno di questi nomi, se potessimo annotarli su un quaderno, racconterebbe una storia precisa, un episodio condiviso, un ricordo.
Anche chi vive con più cani lo sa: ognuno sviluppa la sua “famiglia di nomi”, come se fossero cerchi concentrici di vicinanza. Ci sono i nomi ufficiali, quelli anagrafici, da veterinario o da cucciolata. Poi ci sono i nomi da passeggiata, quelli che usiamo per richiamarli in fretta. E infine ci sono i nomi d’amore, quelli che non servono a chiamare, ma a parlare. A dire “sei mio”. A dire “sei con me”. A dire “ti voglio bene” senza bisogno di frasi lunghe.
Anche il contesto influenza il suono che usiamo. In pubblico, magari si tende a usare il nome originale, per non sembrare troppo strambi. Ma a casa, dove nessuno giudica e il linguaggio è libero, sbocciano le vere poesie. Parole senza logica, a volte senza senso, ma piene di affetto. Sono i nomi che si usano in famiglia, quelli che cambiano nel tempo, come cambiamo noi, come cambia il nostro rapporto con quel cane che da “cucciolo” diventa “compagno di vita”.
E poi c’è il momento in cui ci accorgiamo che anche noi veniamo chiamati in modi diversi. Perché anche il cane ci dà nomi, seppure silenziosi. C’è il nome che ci dà quando siamo quelli delle coccole, quello delle passeggiate, quello delle crocchette, quello dei rimproveri. Non lo dice, ma lo comunica. Perché, in fondo, questo scambio di soprannomi è solo una delle tante forme con cui si costruisce un legame.
Alla fine, chiamare un cane in cento modi diversi non è un’abitudine, è una dichiarazione d’amore continua. È un modo per dire che lo vediamo, che lo riconosciamo in ogni sfumatura del giorno. Che non è solo “un cane”, ma quel cane, con quel carattere, con quel modo di sbadigliare, con quel muso che cambia espressione ogni volta che sente il suono del frigorifero.
E anche quando il cane non c’è più, i nomi restano. Rimangono impressi nella voce, nei messaggi vocali che non cancelliamo, nei ricordi condivisi. A volte ci scappa ancora di pronunciarli, all’improvviso, nel silenzio. E allora capiamo che ogni nome era un pezzo del nostro affetto. Un modo unico di dire “tu sei casa”.