Skip to main content

Tra i silenzi sospesi del Giappone feudale, quando l’onore era inciso nella lama di una katana e il destino si scriveva con un solo gesto, c’erano cani che imparavano a camminare nel vento.

Non erano da compagnia, né da guardia nel senso che intendiamo oggi.

Erano compagni d’anima. Ombre discrete accanto a uomini che avevano fatto della disciplina una filosofia di vita.

E nel loro silenzio, i cani dei samurai sussurravano più di quanto si possa immaginare.

Durante il periodo Edo (1603–1868), in un Giappone governato dalla pace apparente e da una rigida gerarchia sociale, i samurai erano più che semplici guerrieri: erano custodi di un codice morale chiamato Bushidō, la via del guerriero.

Un codice fatto di lealtà, coraggio, controllo delle emozioni, rispetto e onore.

E in questo universo di rigore e contemplazione, il cane trovava spazio.

Non come servitore.

Come specchio.

Le razze che affiancavano i samurai erano autoctone, antiche, fiere. Akita, Shikoku, Kishu, Shiba Inu. Cani dalla statura contenuta, dal carattere forte ma mai aggressivo, capaci di leggere l’atmosfera prima ancora che qualcosa accadesse.

Non venivano addestrati come si fa oggi, con ricompense o comandi.

Erano formati con la vicinanza, la pazienza e l’ascolto.

Un legame costruito nel tempo. Un dialogo senza parole.

Tanto profondo che alcuni parlavano di intesa marziale: un linguaggio fatto di gesti impercettibili, sguardi, respiri.

Come se il cane sapesse interpretare l’energia del padrone prima ancora che diventasse movimento.

Un racconto tramandato oralmente nella provincia di Yamagata narra di un samurai di nome Hoshino.

Aveva perso il suo clan, la sua casa, la sua ragione di combattere.

Viveva in isolamento, in una piccola casa di legno vicino al fiume. Non parlava con nessuno, non impugnava più la spada.

Ma ogni giorno camminava lungo la riva, con un cane nero accanto.

Un cane silenzioso, attento, vigile. Nessuno sapeva da dove fosse arrivato.

Si dice che, quando Hoshino morì, il cane restò seduto per giorni sul ponticello di legno, fissando il punto dove il samurai era solito fermarsi.

Lo chiamarono Kuro no Koe, la voce nera.

Perché, secondo alcuni, quel cane portava dentro di sé le parole mai dette dal suo padrone.

I cani dei samurai non erano solo presenze affettive.

Avevano ruoli precisi: scortavano durante i viaggi, avvistavano movimenti sospetti, segnalavano pericoli con discrezione.

Ma ciò che colpiva era la loro capacità di non disturbare.

Non si facevano notare.

Erano parte del paesaggio, come una lanterna di pietra in un giardino Zen.

Il cane non era addestrato a reagire.

Era allenato a sentire.

La filosofia Zen, che permeava molti dojo dell’epoca, influenzava anche il modo di stare con gli animali.

L’essere presenti.

L’assenza di parole inutili.

L’ascolto del mondo, sottile e continuo.

Per questo non era raro che il cane seguisse il proprio padrone anche durante gli allenamenti.

Silenzioso. Composto. Presente.

Come un’ombra disciplinata.

Nelle stampe antiche giapponesi, i cani appaiono accanto a figure nobili, mai ridicolizzati, mai umanizzati.

La loro postura è dignitosa. Lo sguardo composto.

Non c’è compiacimento.

C’è armonia.

Il cane, come il guerriero, sta nel mondo con misura.

Alcuni testi secondari riportano l’esistenza di vere e proprie scuole per cani nei villaggi che vivevano all’ombra dei castelli feudali.

Non sappiamo quanto sia leggenda e quanto verità.

Ma sappiamo che il Komainu – il cane-leone di pietra che ancora oggi custodisce l’ingresso dei templi shintoisti – nasce come simbolo protettivo.

E non è difficile immaginare che, nella realtà, il cane sia stato il guardiano silenzioso di quegli stessi luoghi.

Con l’arrivo dell’era Meiji, e la fine della casta dei samurai, molte di queste tradizioni si sono disperse.

Spazzate via dalla modernità, dal rumore, dalla corsa.

Ma qualcosa è rimasto.

Ancora oggi, in alcune scuole di addestramento tradizionale giapponese, si insegna che per creare un vero legame con il cane bisogna “spegnere il rumore dentro di sé”.

Solo allora il cane si avvicina.

Solo allora nasce il vero ascolto.

E così, mentre in Occidente il cane è spesso il compagno rumoroso delle nostre giornate frenetiche, in Giappone è stato per secoli il custode del silenzio.

Quel silenzio che protegge.

Che osserva.

Che sussurra, proprio come un samurai.