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Ci sono viaggi che si decidono con le mappe, i paragrafi sottolineati, i piani A, B e anche C. E poi ci sono quelli che cominciano da uno sguardo. Il suo. Pettorina tra i denti, coda ferma, occhi che dicono: “Io ho già scelto.” Quella volta fu lui a portarmi sulla Via degli Dei. Io, come spesso succede, mi limitai a seguirlo.

Era fine maggio. Bologna si stava ancora stiracchiando. I portici mezzi assonnati, l’odore di pane nell’aria, qualche bar già aperto, i primi passi sul selciato. Lo zaino era leggero, il giusto. Dentro: acqua, biscotti, una maglia di ricambio, la sua ciotola, la coperta, le tappe segnate a matita su un foglio già stropicciato. Il necessario. Il superfluo, tanto, lo lasciavamo indietro camminando.

Uscimmo da Piazza Maggiore mentre la città si dava il buongiorno. Il cane, con la sua pettorina da “spedizione seria”, camminava davanti. Ogni tombino un annuso, ogni angolo una storia. Salimmo i portici verso San Luca come due pellegrini d’altri tempi: fiatone e sorrisi, con la sensazione che qualcosa di buono stesse per iniziare.

Il sentiero vero partiva da Casalecchio, dopo il Reno. Lì la città smetteva di essere città e si faceva bosco. Salite gentili, terra bagnata, silenzi che non mettevano soggezione. Il cane dettava il ritmo. Ogni tanto si voltava come per dire: “Tutto bene, umano?” Io annuivo, e lui ripartiva. Sempre avanti, sempre convinto.

Attraversammo il Parco Talon, poi borghi silenziosi che sembravano lì da sempre: Badolo, Monzuno, posti che non chiedono attenzione, ma la meritano. Incontravamo altri camminatori. Alcuni parlavano molto, altri niente. I cani si annusavano e poi ognuno per la sua strada, come succede tra chi si capisce in fretta.

Dormivamo dove capitava. Piccoli rifugi, agriturismi con tavoli larghi e odore di legna. Lui era sempre il primo a ricevere attenzioni. Una ciotola prima ancora di un saluto. Una carezza come se ci conoscessimo da sempre. A Madonna dei Fornelli passammo una notte in una stanza che odorava di lana e serenità. Lui si sistemò in fondo al letto, con il muso sulle mie caviglie. Dormì così, senza muoversi, fino all’alba.

Il tratto della Flaminia Militare fu diverso. L’antica strada romana sotto i piedi dava una strana sensazione di continuità. Camminarci sopra era come dire: “Ci sono passato anch’io.” Il cane sembrava capirlo. Per un tratto non annusò niente. Solo camminava, accanto. Silenzioso, rispettoso. Ci fermammo a mangiare su una roccia piatta. Io con un panino, lui con crocchette e una carezza tra le orecchie.

Al Passo della Futa ci trovò il vento. Tagliava l’erba e scuoteva le nuvole come tende leggere. Passammo davanti al cimitero militare, bianco e ordinato. Il cane si fermò davanti a una lapide lunga. Si sedette. Non fece nulla. Solo guardò. E io non chiesi niente.

Verso San Piero a Sieve il cammino si fece più stretto. Ginestre, ghiaia, passi che suonavano piano. L’ultima salita, verso Monte Ceceri, fu lenta. Non per stanchezza. Ma perché sapevamo che stavamo arrivando.

Entrammo a Firenze nel tardo pomeriggio. Il sole tagliava i tetti, filtrava tra le case. Scendemmo da Fiesole con passi leggeri. Il cane si fermò in Piazza della Signoria, proprio sotto la statua di Cosimo. Si leccò una zampa. Poi si sedette, tranquillo, come se fosse sempre stato lì.

Io mi misi accanto a lui. Le gambe pesanti, ma il cuore pieno. Lui chiuse gli occhi, un secondo appena. Poi li riaprì. Si voltò verso di me. In quello sguardo c’era tutto: le tappe, la pioggia, il vento, le ciotole d’acqua offerte, i prati dormiti, la fatica buona.

Capì che era ora. Ci alzammo. Firenze ci guardava. Noi la guardammo indietro. E il cammino, anche se finito, non sembrava volerci lasciare più.