Era uno di quei giorni in cui il cane capisce tutto prima ancora che tu abbia detto una parola. Forse l’aveva intuito dalla valigia appoggiata di traverso in corridoio. O dal rumore della pellicola dei panini, quella che scrocchia appena la tocchi. Fatto sta che alle sette meno cinque era già seduto, pettorina in bocca, coda che spazzava il pavimento come una scopa felice. Aveva deciso che si partiva. E io non avevo voce in capitolo.
Monguelfo, che già di nome sembra un posto da libro illustrato, ci accolse con l’odore del pane fresco e una calma che sembrava fatta apposta per cominciare bene. La strada verso il Lago di Braies era tutta una curva lenta, pino dopo pino, aria fresca e silenzio che sapeva ascoltare. Ogni tanto, il cane allungava il muso fuori dal finestrino e prendeva appunti col naso.
Poi, eccolo. Il lago.
Liscio come vetro, verde come certe bottiglie antiche, immobile come uno che sa di essere guardato. Il cane lo fissò per un bel po’, sospettoso. Come se l’acqua nascondesse qualcosa. Poi fece un mezzo passo avanti. Una zampa in più, e aveva deciso: va bene, si può andare.
Il sentiero che lo circonda è largo, gentile, adatto alle gambe dei bambini e alle zampe dei cani curiosi. Il nostro partì come se dovesse mettere il timbro su ogni albero: annusa, cammina, annusa, marca, ripeti. Ogni dieci metri qualcosa da scoprire. Ogni cinquanta, un incontro.
Una bambina con un gelato che le scappava di mano. Un signore con un cappello da alpinista e un labrador che camminava come se conoscesse ogni sasso. Una coppia che si teneva per mano senza guardarsi. E il cane, ogni tanto, si voltava indietro e sembrava dire: “Li vedi? Sempre a pensare, mai che si fermino ad annusare un pino come si deve.”
Poi, la spiaggetta. Piccola, tranquilla, perfetta per una pausa con le zampe nella sabbia e la lingua che penzola. Non resistette. Tuffo, schizzi, sabbia ovunque. Risate. Scrollata d’acqua addosso al sottoscritto, che tanto la felpa era già mezza bagnata. Si stese all’ombra, tutto fiero. E per un attimo fu pace, quella vera.
Ripartimmo lenti. Come quando hai già trovato quello che cercavi. Passammo davanti alla chiesetta di Maria am See, tutta in legno e con una porta così piccola che sembrava uscita da una fiaba. Il cane si fermò. Guardò l’ingresso con la testa inclinata. “Pensi che facciano benedizioni anche per i beagle disobbedienti?”, gli chiesi. Lui si grattò un orecchio. Tradotto: non mi riguarda.
Ci sedemmo su una panchina a fine giro. Di quelle di legno vissuto, un po’ storte, con i chiodi che si arrendono al tempo. Il lago aveva già cambiato colore almeno tre volte. Il cielo si stava preparando al solito spettacolo di nuvole gonfie da pomeriggio alpino. Lui si accucciò accanto alle mie scarpe. Fece quel sospiro lungo, di pancia, che solo i cani fanno quando sentono che è andato tutto bene. Io bevvi un caffè da distributore. Non era speciale, ma in quel momento sembrava buonissimo.
In macchina, mentre lui dormiva col muso sulla zampa, pensai che ci sono posti che ti piacciono subito e posti che ti chiedono di tornare. Braies era uno di questi. E che alla fine i viaggi migliori non sono quelli in cui vedi tante cose, ma quelli in cui c’è qualcuno accanto a cui puoi stare zitto. Senza spiegare niente. Solo camminare.